Studiare il modo in cui i bambini potevano essere coinvolti in contesti di lavoro è un’impresa non ovvia. Le fonti che affrontano i temi sensibili del lavoro sono parziali e insufficienti: la storia del lavoro infantile rappresenta un capitolo a sé, più critico di altri. Il mondo antico non concettualizza in modo unitario i confini cronologici dell’infanzia, che di fatto sembra essere un tema interessante solo per le fonti mediche, che stabiliscono partizioni di vita relative ai periodi in cui è più facile e maggiormente a rischio di vita contrarre malattie. I margini cronologici dell’infanzia variano, dunque, a seconda dello stato sociale e del genere.  La percezione diffusa è quella di un’età della vita difettosa, in cui non si sono perfezionati cicli biologici di crescita e rafforzamento fisico e morale; in cui l’incapacità di parlare (in-fans) codifica per l’impossibilità a essere riconosciuti come membri di una comunità sociale; in cui la protezione della fragilità biologica e psicologica è affidata solo a contesti privati, più o meno sensibili. La mortalità infantile altissima e la percezione dell’infanzia come età aggredibile e incompiuta a causa di malattie infettive e carenziali contribuiscono in un arco diacronico ampio a trasmettere il senso di un’età della vita che è insensato proteggere o tutelare. Non è strano, insomma, nel mondo romano che un bambino anche molto piccolo venga impiegato in contesti di lavoro: questo accade di norma per gli schiavi e spesso anche per i liberi.

Le fonti epigrafiche, letterarie e iconografiche, riflesso di una percezione aristocratica del mondo, aiutano solo tangenzialmente a ricostruire contesti nei quali il lavoro dei bambini può essere inteso come un equivalente di quello servile, che di fatto impiegava anche bambini di condizione libera ma abbandonati, ceduti o costretti a collaborare per migliorare gli introiti di una famiglia in difficoltà.

Di fatto, esiste nel mondo romano una grande fluidità tra gli stati sociali: un libero può diventare schiavo e uno schiavo fortunato può diventare libero. I bambini schiavi hanno lo stesso destino dei beni materiali, che possono essere esposti, venduti, barattati, lasciati in eredità. Le femmine possono essere vendute come prostitute, i maschi acquistano valore in relazione alle loro capacità produttive e al modo in cui sono stati formati. Dai cinque anni (e talvolta prima) possono essere impiegati in lavori domestici, nelle attività scrittorie, nel lavoro agricolo e edilizio, nelle miniere, nella cura degli animali, delle greggi e nella transumanza, nell’intrattenimento degli ospiti. Possono essere spinti a formarsi come medici o obstetrices e, se sono fortunati, possono diventare deliciae dei padroni di casa (non sempre un male, talvolta il primo passo per l’affrancamento). Condizioni molto eterogenee, che impegnano i bambini spesso dall’alba al tramonto.   Dai dati di alcuni contesti archeologici, per esempio Ercolano, sappiamo che la vita lavorativa di questi bambini poteva essere molto gravosa: le loro ossa sono segnati da stress importanti. Ma gli schiavi non erano i soli bambini a dover lavorare: esistono a Roma condizioni più fumose, come quelle di chi, nato libero, viene abbandonato per cause di forza maggiore o per non disperdere un patrimonio. Privati di uno status giuridico definito, questi bambini possono aver vissuto in condizioni talvolta peggiori di quelle servili, perché non sottoposti a forme – talvolta attestate – di tutela padronale persino affettuosa. Analogamente, bambini liberi di condizione sociale bassa possono essere impiegati nelle attività familiari, nel lavoro dei campi e, in casi di estrema povertà, essere ceduti a terzi.

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