I trattati biologici aristotelici accolgono l’idea del femminile come dimensione del difetto e dell’incompiutezza e la ridefiniscono ponendo l’accento sull’innata ‘freddezza femminile’, che rende impossibile la cozione e l’eliminazione delle scorie prodotte dai processi fisiologici.

Nella gravidanza, i processi embriogenetici, se avvengono correttamente, prevedono la dominanza del calore maschile sulle qualità femminili e la conseguente nascita di un figlio perfetto, cioè maschio e sano; nel caso in cui la dominanza del principio caldo maschile non si realizzi per un lieve difetto del calore paterno, si generano le femmine, creature difettuali, seppure necessarie alla natura per la riproduzione.

Nel caso estremo in cui le caratteristiche di maggiore freddezza e umidità che caratterizzano il corpo delle madri prevalgano sulle qualità positive trasmesse dal seme paterno, avverranno nascite di esseri ‘difettuali’, portatori di disabilità, di mancanze fisiche, di sovrabbondanze di parti; si verificheranno gravidanze gemellari siamesi o nasceranno esseri ermafroditi. Questo processo degenerativo giustifica anche la nascita di mole, termine che indica, nel linguaggio non tecnico, la pietra con cui si macina il grano: figli mostruosi, caratterizzati da eccesso di qualità fredde trasmesse dalle madri in modo talmente eccessivo da ‘congelare’ i processi di embriogenesi   nella produzione di una massa di carne informe, fredda e priva di sensazione e movimento.

La nascita di una femmina è, dunque, il primo grado di un processo di tradimento dell’andamento ordinato della natura; per Aristotele, il momento in cui il principio attivo maschile, incapace di attribuire alla materia la forma che le è propria, si degrada, generando l’opposto da sé. Le donne sono intese, quindi, come maschi incompleti, maschi ‘sterili, stadi di sviluppo difettuali che non consentono la formazione corretta e compiuta di tutte le parti del corpo. L’idea aristotelica che il corpo delle donne sia un prodotto intermedio della generazione è trasformata, nelle opere del medico Galeno di Pergamo, attivo a Roma in età imperiale, in una vera e propria anatomia dell’inversione: per Galeno, uomini e donne hanno parti sessuali simili, che nel maschio si riversano all’esterno durante le fasi finali della gravidanza, per gli effetti corretti della dominanza del calore maschile, nelle donne rimangono introflesse e trattenute all’interno del ventre, come se il processo di formazione del figlio veramente sano – il maschio- non avesse la forza di trovare il suo compimento.

L’idea che la differenza anatomica tra maschile e femminile sia causata solo da una diversa collocazione sulla scala dello sviluppo embrionale si conserva sino al primo evo moderno: ancora Andrea Vesalio, nel testo anatomico De humani corporis fabrica, stampato a Basilea nel 1543, inserisce una tavola in cui l’utero è raffigurato come un pene rimasto intrappolato all’interno del ventre.

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